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Carlo Ginzburg
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Carlo Ginzburg

Premio Balzan 2010 per la storia d’Europa (1400-1700)

(dal sito: www.balzan.org)

 

Qualche domanda a me stesso

Sintesi panoramica della sua carriera, redatta da Carlo Ginzburg in occasione della cerimonia di consegna dei Premi Balzan 2010 a Roma

1. Sono profondamente onorato dal prestigioso premio che mi è stato conferito.

Ringrazio la giuria, e in maniera particolare Quentin Skinner per le sue generose parole: in particolare, per aver accennato alla coerenza dei temi e dell’impostazione rintracciabile nelle mie ricerche. È un’osservazione che mi lusinga. Ma subito sento la voce dell’avvocato del diavolo (una voce che mi accompagna, come un basso continuo) obiettarmi: “ti sei occupato di streghe e di Piero della Francesca, di un mugnaio processato dall’Inquisizione e di questioni di metodo: dov’è l’unità in tutto questo? qual è il filo conduttore che lega temi così vistosamente eterogenei?”.

È un’obiezione insidiosa, perché nasconde un invito alla teleologia: vizio da cui tutti – ma gli storici in maniera particolare – dovrebbero guardarsi. Rintracciare a ritroso un filo conduttore in un itinerario di ricerca che si è prolungato per più di cinquant’anni è possibile, certo – ma a patto di eliminare tacitamente il caso, l’inconsapevolezza, le alternative scartate o semplicemente ignorate che

sono emerse via via. Per non cadere nella trappola che mi tende l’avvocato del diavolo respingerò la metafora del filo conduttore e proverò a utilizzare una metafora diversa.

2. Il 12 luglio 1934 Walter Benjamin, esule in Danimarca, dove era riparato sottraendosi ai nazisti, scrisse nel suo diario: Ieri, dopo la partita a scacchi, Brecht ha detto: ‘Dunque, se viene Korsch [Karl Korsch, il teorico marxista], dovremmo escogitare con lui un nuovo gioco. Un gioco in cui le posizioni non restano sempre le stesse: in cui la funzione delle figure cambia, quando sono state per un certo tempo nella stessa posizione: esse diventano allora più forti, o anche più deboli. Le cose non si sviluppano, in questo modo; restano per troppo tempo identiche’.[1]

Brecht voleva modificare le regole degli scacchi per renderle più aderenti alla realtà, che è in perpetuo movimento. Riformulerò la sua proposta applicandola (con un occhio rivolto a Il cavallo e la torre di Vittorio Foa) a un frammento di realtà infinitesimale: un itinerario di ricerca, il mio. Proverò a descriverlo come una partita a scacchi in cui i pezzi, anziché essere distribuiti all’inizio, vengono introdotti via via nel corso del gioco. La partita è cominciata un giorno dell’autunno 1959. Avevo vent’anni, mi trovavo nella biblioteca della Scuola Normale di Pisa, di cui ero alunno da due anni. Improvvisamente decisi tre cose: che volevo fare lo storico; che volevo studiare i processi di stregoneria; che volevo studiare non la persecuzione della stregoneria ma i perseguitati – le donne e gli uomini accusati di essere streghe e stregoni. Questo progetto nebuloso, formulato con grande convinzione e nella più completa ignoranza, non sarebbe nato senza la forte impressione suscitata dalla lettura dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, de Il mondo magico di Ernesto de Martino. Ma c’era un altro elemento, di cui mi sarei reso conto solo molti anni dopo: nell’identificazione emotiva con le vittime della persecuzione, e nell’impulso a studiarle, c’era anche una proiezione inconsapevole della mia identità ebraica, che la persecuzione aveva rafforzato.[2]

3. Alla fine degli anni ’50, le credenze e le pratiche connesse alla stregoneria erano temi riservati agli antropologi; gli studiosi di storia europea tendevano a occuparsi tutt’al più della cosiddetta caccia alle streghe (un tema che comunque era considerato marginale). La situazione sarebbe cambiata, in parte, di lì a pochi anni. Nel 1977 Arnaldo Momigliano scrisse che la “caratteristica più pervasiva” della storiografia del quindicennio 1961-1976 era forse “l’attenzione ai gruppi oppressi e/o minoritari nell’interno delle civiltà più avanzate: donne, bambini, schiavi, uomini di colore, o più semplicemente eretici, contadini, operai”.[3] Momigliano osservava che nel corso di quel quindicennio gli antropologi o etnografi avevano acquisito presso gli storici “un prestigio senza precedenti”. Non si soffermava però su un ostacolo con cui gli storici che si proponevano di studiare i “gruppi oppressi e/o minoritari nell’interno delle civiltà più avanzate” dovevano necessariamente fare i conti. In qualsiasi società i rapporti di potere condizionano l’accesso alla documentazione e le sue caratteristiche. Le voci degli appartenenti a quei gruppi oppressi e/o minoritari ci arrivano di solito filtrate da figure estranee se non ostili: cronisti, notai, burocrati, giudici e così via. Nel caso dei processi di stregoneria che mi proponevo di studiare, la violenza psicologica e culturale esercitata dai giudici, talvolta accompagnata dalla tortura, tendeva a distorcere le voci delle imputate e degli imputati in una direzione precostituita. (Non è un caso che i processi politici celebrati nel corso del ventesimo secolo siano stati definiti spesso, polemicamente, “processi di streghe”). Come superare questo ostacolo? Questa era la situazione che mi potevo ragionevolmente aspettare, e che di fatto incontrai nei primi anni delle mie esplorazioni attraverso gli archivi laici ed ecclesiastici della penisola, verso cui mi aveva indirizzato Delio Cantimori. Poi ebbi un colpo di fortuna: “per mero caso, ossia” come scrisse una volta Carlo Dionisotti “per la norma che presiede alla ricerca dell’ignoto”, scoprii i processi celebrati dall’Inquisizione del Friuli tra ’500 e ’600 contro i benandanti.[4]4 Di questa parola incomprensibile gli inquisitori chiesero ripetutamente il significato agli uomini e le donne che si proclamavano, per l’appunto, “benandanti”. La risposta era invariabilmente questa: essendo nati con la camicia, ossia avvolti nel cencio amniotico, erano costretti a recarsi in spirito, quattro volte all’anno, a combattere contro streghe e stregoni per la fertilità dei campi. Per gli inquisitori queste erano assurdità o menzogne: ai loro occhi i benandanti erano ovviamente streghe e stregoni. Ma perché quest’identificazione diventasse realtà ci vollero cinquant’anni. Incalzati dalle domande e dalle minacce degli inquisitori, i ben andanti introiettarono a poco a poco i tratti del modello che veniva loro proposto (o meglio imposto): e le minuziose descrizioni delle battaglie combattute in spirito, armati di rami di finocchio, per la fertilità dei campi, lasciarono il posto all’immagine più o meno stereotipata del sabba stregonesco.[5] Lo scarto tra le aspettative degli inquisitori e le risposte dei benandanti indicava che queste ultime emergevano da uno strato profondo di cultura contadina. Di qui il valore eccezionale di quella documentazione friulana. Il tentativo di afferrare le voci dei perseguitati era stato coronato (pensai) da un successo iniziale, che apriva un terreno inesplorato. Retrospettivamente sono indotto a pensare che tutte le mie ricerche siano scaturite da quel primo libro, anche se in maniera non obbligata e soprattutto non lineare. (È per questo che sono affezionato alla metafora degli scacchi: nel corso della partita i vari pezzi si muovono sulla scacchiera seguendo logiche proprie, obbedendo a regole specifiche; ma la partita è una sola).

4. Proporsi di ricostruire le credenze e gli atteggiamenti degli imputati attraverso processi distorti dalle aspettative dei giudici sembrava, ed era, paradossale. Le difficoltà nascevano di lì. Bisognava imparare a leggere tra le righe, a cogliere indizi minimi, a individuare increspature che segnalavano sotto la superficie dei testi la presenza di tensioni profonde, non riducibili allo stereotipo. Senza accorgermene cercavo di applicare a documenti d’archivio le lezioni dell’ermeneutica condotta su testi letterari che avevo imparato da Leo Spitzer, da Erich Auerbach, da Gianfranco Contini. L’impulso a riflettere sul metodo (oggi direi: a sterilizzare gli strumenti di analisi) nasceva dalla ricerca concreta – anche se a un certo punto cedetti alla tentazione di proporre una genealogia, e una giustificazione, del metodo in cui mi riconoscevo e che venivo praticando. Ma quando pubblicai quel saggio – Spie – le mie ricerche nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine avevano preso ormai una direzione diversa. Nella prefazione a I benandanti (1966) avevo scritto: “Queste testimonianze friulane ci mostrano […] un intersecarsi continuo di tendenze della durata di decenni o addirittura di secoli, e di reazioni assolutamente individuali e private, spesso addirittura inconsapevoli – quelle reazioni di cui apparentemente è impossibile fare storia, e senza le quali, in realtà, la storia della ‘mentalità collettiva’ finisce con l’ipostatizzare una serie di tendenze e di forze disincarnate e astratte”.[6] Oggi leggo in questa presa di distanza nei confronti dalle Annales della seconda generazione (da cui pure avevo imparato moltissimo) una apertura potenziale verso una riduzione ulteriore di scala: una ricerca concentrata su un unico individuo.[7] Ma questa mossa ulteriore richiese tempo. Al principio degli anni ’60, scorrendo l’indice settecentesco del primo migliaio di processi dell’Inquisizione conservati nell’Archivio della Curia Arcivescovile, mi ero im-battuto nel riassunto, condensato in poche righe, di due processi contro un contadino, colpevole di aver sostenuto che il mondo era nato dalla putredine. Quel contadino era il mugnaio Domenico Scandella, detto Menocchio. Ma perché mi decidessi a occuparmi di lui passarono sette anni; e altri sette, comprensibilmente, prima che venisse pubblicato Il formaggio e i vermi, il libro a lui dedicato. In quell’esitazione, e più ancora nel piglio polemico, aggressivo e difensivo insieme, della mia introduzione, ritrovo l’elemento di rischio che il successo di quel libro ha cancellato. Dedicare a un mugnaio del ’500 non una nota a piè di pagina, non un saggio, ma un libro, era allora (non dico oggi) tutt’altro che scontato.

5. Ho parlato di “riduzione di scala”: un termine tipico della microstoria, la corrente storiografica proposta da un gruppo di storici italiani riuniti attorno alla rivista Quaderni storici, a partire dalla seconda metà degli anni ’70. Di quel gruppo facevo parte anch’io; e sia Il formaggio e i vermi sia il saggio Spie sono stati spesso ricondotti alla microstoria, o almeno a una delle sue versioni. Le etichette non mi interessano, ma l’impulso che ha generato la microstoria sì. Sono convinto che la riduzione della scala di osservazione (non dell’oggetto di indagine, sia chiaro) sia uno strumento conoscitivo prezioso. Come scrisse una volta Marcel Mauss, un caso studiato in maniera intensiva può gettare le basi di una generalizzazione.[8] Io aggiungerei: sì, soprattutto se si tratta di un caso anomalo, perché l’anomalia contiene la norma (mentre non è vero l’inverso).[9] E proseguirei distinguendo tra generalizzazione delle risposte e generalizzazione delle domande. La ricchezza potenziale degli studi di casi mi pare legata soprattutto a quest’ultima.[10] Il formaggio e i vermi è un libro nato nel clima delle lotte politiche e sociali italiane degli anni ’70, ma ha continuato a vivere grazie a lettori e lettrici nati in altri tempi e altri luoghi. Questo successo imprevisto va attribuito anzitutto alla straordinaria personalità di Menocchio, il protagonista del libro. La sua sfida alle autorità politiche e religiose, nutrita di idee scaturite dall’intreccio tra cultura orale e cultura scritta, era in grado di raggiungere persone molto lontane dal suo mondo – e, vorrei aggiungere, dal mio. Tra coloro che reagirono – spesso in maniera polemica, com’era giusto – c’erano anche gli storici di mestiere. Se non m’inganno, il libro ha mostrato la complessità insospettata che si nasconde dietro a termini consueti del lessico storiografico: da “classi popolari” a “contadini”, da “alfabetizzazione” a “lettura”. Più in generale, ha confutato una volta per tutte la tesi che era stata formulata da un autorevole storico, secondo cui le classi meno privilegiate dell’Europa della prima età moderna sarebbero accessibili solo in una prospettiva statistica.[11]

6. Ho parlato di generalizzazione a partire da un caso. Dopo la pubblicazione de Il formaggio e i vermi mi proposi di sviluppare un’ipotesi che mi pareva emergere con forza dal caso di Menocchio: la circolarità tra cultura di élite e culture subalterne (per usare il termine di Gramsci). Un tentativo in questa direzione mi portò sulle tracce di un ebreo convertito, Costantino Saccardino, processato dal tribunale del Sant’Uffizio di Venezia prima, poi di Bologna, che lo condannò al rogo nel 1621 perché implicato in una congiura a sfondo ereticale. La ricerca del processo inquisitoriale contro Costantino Saccardino, che supponevo conservato nell’archivio romano del Sant’Uffizio presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, allora inaccessibile, m’indusse a scrivere una lettera a papa Wojtyla in cui chiedevo l’apertura di quell’archivio agli studiosi. Dalla segreteria del papa ricevetti una risposta che prendeva atto (forse con benevola ironia) del mio entusiasmo per la ricerca, ma mi informava che il processo contro Saccardino era irreperibile – verosimilmente distrutto. Vent’anni dopo il cardinale Ratzinger, allora prefetto di quella Congregazione, intervenendo al convegno che si tenne nel 1998 presso quest’Accademia, per celebrare l’apertura degli archivi del Sant’Uffizio romano decisa da papa Wojtyla, lesse un passo della mia lettera, dichiarando che era stato lo studioso autodefinitosi “ebreo di nascita ed ateo” a “provocare il movimento di riflessione che costituisce la storia contemporanea dell’apertura degli Archivi”.[12] Troppa grazia, davvero. Ma nel frattempo le mie ricerche avevano preso di nuovo una direzione diversa.

7. Ancora una volta ricorro al modello della scacchiera perché è compatibile con un movimento a zig-zag, non rettilineo, e tuttavia condizionato dalla mossa di apertura iniziale. Nel mio caso, si trattava dei benandanti. Una scoperta, ancora una volta casuale, avvenuta poco prima di spedire all’editore la versione definitiva del manoscritto de I benandanti, mi aveva rivelato l’esistenza di un

processo, pubblicato in una rivista di storia baltica, contro un vecchio lupo mannaro di nome Thiess, celebrato a Jürgensburg (oggi Zaube), verso la fine del ’600. Un processo del tutto anomalo: Thiess dichiarò che, essendo nato con la camicia, doveva recarsi tre volte all’anno “alla fine del mare” con gli altri lupi mannari a combattere con i diavoli per la fertilità dei campi. Le analogie con i benandanti erano evidenti, ma esigevano una ricerca comparata di cui non mi sentivo capace: nella prefazione dichiarai di non aver affrontato “il problema della connessione, indubitabile, tra benandanti e sciamani” – un’affermazione al tempo stesso audace e prudente.[13] Perché mi decidessi ad affrontare un’impresa come quella dovevano passare quasi vent’anni. Cominciai a raccogliere molto materiale, senza capir bene che cosa stessi facendo; ma poco dopo smisi e mi buttai a lavorare a un progetto di tutt’altro genere – una ricerca su Piero della Francesca, che condensai in un piccolo libro intitolato Indagini su Piero (1981). Mi rendo conto che l’itinerario che sto descrivendo sembra dominato dal capriccio, se non addirittura da un sospetto di frivolezza. In realtà qualche anno dopo capii che quella apparente diversione verso Piero della Francesca cercava oscuramente di fare i conti con l’ostacolo maggiore che mi veniva posto, in tutt’altro ambito, dal tentativo d’inserire il caso dei benandanti in una prospettiva comparata. Quest’ostacolo può essere ricondotto a due termini, morfologia e storia, e al loro rapporto. Nella mia ricerca su un gruppo di opere di Piero presi in esame dati extrastilistici, legati all’iconografia e alla committenza, costruendo un itinerario pittorico, e una cronologia, che misi a confronto con quella che era stata autorevolmente proposta sulla base dei dati dello stile. Dietro quest’esperimento, nato da un’antica passione per Piero e per la pittura, c’erano le pagine di Roberto Longhi su Palma il Vecchio nelle Precisioni sulla Galleria Borghese, e il libro di Federico Zeri sul Maestro delle tavole Barberini, Due dipinti, la filologia e un nome.[14] Da loro avevo imparato che una costellazione di dati formali disegna l’itinerario, spesso noto in maniera lacunosa, di una personalità stilistica che corrisponde, di norma, a una personalità anagrafica. Analogamente, pensai, una costellazione costituita da miti morfologicamente simili a quello legato ai benandanti dovrà essere ricondotta a connessioni storiche specifiche – a meno che quelle affinità morfologiche non siano riconducibili alla natura umana. Attorno a quest’alternativa e alle sue implicazioni (di cui qui non parlo) mi arrovellai per quasi un quindicennio. Il libro che finalmente scrissi – Storia notturna. Una decifrazione del sabba (1989) – inserisce le credenze dei ben andanti in un insieme vastissimo, costituito da una documentazione dispersa in un arco di millenni lungo il continente euroasiatico, raccolta da demonologi, vescovi, antropologi, studiosi di folklore. È una documentazione che, a differenza di quella sui benandanti, non trasmette quasi mai i nomi degli attori. Nel saggio già ricordato sulle caratteristiche della storiografia del quindicennio 1961-1976, Momigliano aveva accennato al “dispiegarsi di interpretazioni strutturaliste acroniche accanto alla tradizionale storiografia diacronica”.[15] Da questo clima intellettuale discende il dialogo prolungato con lo strutturalismo (una versione del dialogo con l’avvocato del diavolo) di cui si è nutrito il progetto di Storia notturna: mettere una morfologia anonima e acronica al servizio della storia, per proporre in via congetturale connessioni storiche sepolte.

8. “Bisogna leggere la fonte in controluce” ripeteva Arsenio Frugoni nelle sue lezioni pisane. Credo che queste parole mi abbiano vaccinato per sempre contro il positivismo ingenuo. Non immaginavo che un giorno le stesse parole mi avrebbero aiutato a respingere le posizioni neo-scettiche di chi sostiene da tempo l’impossibilità di distinguere su basi rigorose tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione. Questa discussione mi ha coinvolto per vent’anni, in gran parte coincidenti con il periodo in cui ho insegnato a UCLA. Tra i saggi che ho dedicato a questo tema ce n’è uno intitolato “Le voci dell’altro” (“Alien Voices”) che analizza una pagina tratta da un libro del gesuita Charles Le Gobien, l’Histoire des îles Marianes apparsa nell’anno 1700: un’arringa pronunciata dal capo indigeno Hurao per esortare i suoi a rivoltarsi contro gli Spagnoli invasori. Una lettura ravvicinata del testo mostra che l’arringa consiste, come era prevedibile, in un abilissimo intarsio di citazioni classiche: prima fra tutte il discorso in cui nell’Agricola di Tacito il capo indigeno Calgacus denuncia i misfatti dell’impero romano. L’arringa di Hurao è frutto d’invenzione – ma non completamente.[16] Tra le accuse che egli rivolge agli Europei c’è quella di aver portato nelle Isole Marianne mosche e altri insetti che prima non esistevano. In una nota a piè di pagina Le Gobien ironizzò sul passo giudicandolo assurdo: un residuo incrostato nella superficie liscia, retoricamente impeccabile dell’arringa di Hurao. I processi contro i benandanti sono un documento formalmente dialogico, articolato in domande e risposte; nell’Histoire des îles Marianes la dimensione dialogica affiora a un tratto, nella nota a piè di pagina di Le Gobien. Ma la strategia ermeneutica che ho usato nei due casi è in sostanza la stessa: cogliere le tensioni, le dissonanze all’interno di un testo. Nel secondo l’autore di colpo guarda a ciò che ha appena scritto senza comprenderlo. Da quella nota a piè di pagina filtra, come da una crepa, qualcosa di incontrollato: una voce estranea, un frammento di quella realtà extratestuale che i neo-scettici presentano come inattingibile.

9. Nessun testo è immune da crepe: nemmeno il poema che un artefice supremo ha controllato fino all’ultimo particolare. Anche nella Commedia esiste un punto cieco, un elemento della realtà che l’io cosciente di Dante non è riuscito a padroneggiare. Ma di questa ricerca in corso sarebbe prematuro parlare.[17]

La partita è aperta.



[1] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, nota introduttiva di C. Cases, trad. A. Marietti, Torino 1973, p. 221.

[2] C. Ginzburg, “Streghe e sciamani” [1993] in Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano 2006, pp. 281-293.

[3] A. Momigliano, “Linee per una valutazione della storiografia del quindicennio 1961-1976” [1977], ristampato in Id., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, I, Roma 1980, i pp. 377-394, in particolare p. 377.

[4] C. Dionisotti, “Resoconto di una ricerca interrotta”, in Id., Scritti di storia della letteratura italiana, II, 1963-1971, Roma 2009, a cura di T. Basile, V. Fera, S. Villari, p. 325. Della scoperta dei ben andanti ho parlato retrospettivamente in ”Streghe e sciamani” [1993], in Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano 2006, pp. 281-293.

[5] I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino 1966.

[6] I benandanti, p. XI.

[7] 7 Vedi anche le osservazioni di A. Bensa alla voce “Anthropologie et histoire” in Historiographies, sous la direction de C. Delacroix, F. Dosse, P. Garcia, et N. Offenstadt, Paris 2010, I, pp. 49-50.

[8] M. Mauss, “Essai sur les variations saisonnières des sociétés Eskimos” [1906], in Sociologie et Anthropologie, a cura di Cl. Lévi-Strauss, 3a ed., Paris 1966, pp. 389-477.

[9] Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie, 2a ed., München und Leipzig 1934, p. 22, che cita un passo di un innominato “teologo protestante” (Kierkegaard).

[10] 10 Penser par cas, sous la direction de J.-Cl. Passeron et J. Revel, Paris 2005.

[11] Il formaggio e i vermi, introduzione, p. XIX (il riferimento è a François Furet).

[12] Card. J. Ratzinger, Le ragioni di un’apertura”, L’apertura degli Archivi del Sant’Uffizio Romano (Roma, 22 gennaio 1998), Roma 1998, p 185.

[13] I benandanti, pp. 37-40, XV-XVI.

[14] R. Longhi, “Precisioni nelle Gallerie italiane. La Galleria Borghese” [1926-1928], in Opere complete, II, Firenze 1967, pp. 283-287; F. Zeri, Due dipinti, la filologia e un nome: il Maestro delle Tavole Barberini, Torino 1961.

[15] A. Momigliano, “Linee”, p. 377.

[16] C. Ginzburg, “Le voci dell’altro. Una rivolta indigena nelle Isole Marianne”, in Rapporti di forza. Storia retorica prova, Milano 2000, pp. 87-108. In Guampedia: The Encyclopedia of Guam la pagina di Le Gobien è riprodotta come “trascrizione” di un discorso realmente pronunciato: cfr. guampedia.com/chiefs-hurao/.

[17] Un’anticipazione in C. Ginzburg, “Dante’s Blind Spot (Inferno XVI-XVII)”, in Dante’s Pluringualism. Authority, Knowledge, Subjectivity, a cura di S. Fortuna, M. Gragnolati, J. Trabant, Oxford 2010, pp. 149-163.

Un'intervista di Roberta Scorranese sul "Sette", supplemento del Corriere della sera di venerdì 19 luglio 2019.